domenica



il maestro non se ne serve per esercitare un controllo sull’allievo
“esso viene diretto in modo tale da rivelare la sua stessa
contraddizione” (ibidem).
1. L’ebefrenia, in cui si rifiuta il metalinguaggio e ci si
limita all’aspetto puramente letterale della comunicazione.
2. La paranoia, in cui si rifiuta il linguaggio e ci si dedica
alla continua ricerca di significati reconditi al di là di esso.
3. La catatonia, in cui si rifiutano entrambi i livelli e ci si
chiude alla comunicazione mediante l’inattività,
fino all’autismo, o tramite l’iperattività.
Il doppio legame terapeutico imposto dai koan
agisce perché all’allievo viene chiesto:
1. di mostrare il suo autentico e nudo in presenza di un uomo
che rappresenta la piena autorità della cultura, e che è sentito come
il giudice più acuto della personalità.
2. Di essere spontaneo in circostanze in cui difficilmente può
fare qualcosa senza agire con premeditazione.
3. Di concentrarsi su qualcosa senza pensarci. Inoltre costui:
4. Non può fare commenti sul legame, non solo perché riflettere
sul koan non è la risposta, ma anche perché il maestro rifiuterà,
in modo anche energico, tutti i commenti verbali.
5. Non gli è permesso di sfuggire al dilemma cadendo in trance
Nel lavoro sui koan è “[…] una specie di fallimento ansioso per la
premura di vincere o la paura di perdere.[…]
Così una parte del gioco del maestro Zen è fare tutto il possibile
per bloccare l’allievo, fin quando egli cessa di preoccuparsi
se si blocca o no” (ibidem).
Ma poiché il maestro ha seminato un dubbio nella sua mente,
non molto tempo dopo può tornare con le sue scuse,
perché fin quando rimane un dubbio su cui volgere la mente
l’opera non è terminata. In questo modo il gioco va avanti, mossa
dopo mossa, fin quando alla fine l’allievo raggiunge la stessa
inattaccabile posizione del maestro e [anziché imparare ad essere
se stesso come qualche cosa che si possa fare] impara invece che non
può fare nulla per non essere se stesso. Ma questo è solo un altro modo
di dire che ha smesso di identificarsi col suo io, con l’immagine
di se stesso che la società ha imposto su di lui.” (ibidem)

I koan sembrano decisamente condividere molte caratteristiche
della prima classe di problemi, in quanto solitamente producono
nell’allievo un profondo squilibrio di pensiero, seguito da una
serie di tentativi, senza un ordine necessario, di riorganizzazione
dei dati, fino al superamento di un punto critico, di un’impasse
QUANTITA': riguarda la quantità di informazione da fornire
e comprende due sotto-massime: 1. Da' un contributo tanto
informativo quanto è richiesto (per gli scopi accettati dello scambio
linguistico in corso).
2. Non dare un contributo più informativo di quanto è richiesto.
QUALITA': "tenta di dare un contributo che sia vero", cioè:
1. Non dire ciò che credi essere falso.
2. Non dire ciò per cui non hai prove adeguate.
RELAZIONE: "Sii pertinente".
MODO: "Sii perspicuo" e cioè, riguardo non a ciò che si dice,
ma a come lo si dice,
1. Evita l'oscurità di espressione.
2. Evita l'ambiguità.
3. Sii breve (evita la prolissità non necessaria).
4. Sii ordinato nell'espressione.
Orbene, i koan sembrano disobbedire sistematicamente e deliberatamente
a buona parte di queste regole, in particolare alla massima di relazione.
Ritengo probabile che nel caso di una violazione linguistica di questo tipo,
compiuta in maniera quasi ostentata, si origini nell’interlocutore un determinato
ragionamento: se questi ritiene che il maestro non abbia mancato alla massima
perché lo voleva ingannare, o voleva rifiutare la cooperazione, oppure si
trovava in una situazione per cui diverse massime erano in conflitto tra loro,
ciò lo porterà a credere che volesse sottintendere qualcosa che non poteva
comunicargli direttamente.

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